Solchi a terra, solchi nei cuori
servizio civile esteroScritto da Marta Perotti, Casco Bianco a Nairobi in Kenya
Mi trovo a Nairobi da tre mesi e gran parte di quello che mi circonda porta con sé ancora un alone di “mistero”: ci sono cose che osservo e non capisco, che probabilmente non capirò mai. Analizzare, se non si comprende a fondo, è impossibile e quindi non mi resta che raccontare.
Ieri sera c’è stato un piatto di cui i bambini vanno matti, ma non avevamo mai cucinato. Le salsicce, o würstel, nulla di che.
Qui c’è una fabbrica di carne, la cui maggiore produzione e vendita è di queste salsicce e per le strade di Nairobi ci sono molti piccoli rivenditori della quella carne. Le persone al mattino presto si recano allo stabilimento che occupa parte di Kahawa West, il quartiere periferico di Nairobi in cui viviamo e in cui la Comunità Papa Giovanni XXIII opera, acquistano la carne e vanno a rivenderla. Per molti è un lavoro “a giornata” che permette alla famiglia di mangiare la sera. Finché non si termina il prodotto che si è acquistato al mattino si rimane in strada a cercare acquirenti, infatti la maggior parte delle persone che hanno questi lavori rimangono fuori casa tutto il giorno.
Nei supermercati si trovano anche altri tipi di carne, ma qui per strada si usa vendere le sausages, servite su un piccolo fazzoletto di carta, tagliate a metà e condite con un trito di cipolle e pomodori molto fine, il kachumbari; lo stesso fanno con le uova sode, il tutto a pochi centesimi.
Qui vanno tutti matti per la carne, ma è costosa, non tutti se la possono permettere e per questo non è così contemplata nella dieta. La questione dell’apporto proteico è ancora un problema e si usano stratagemmi per aumentare la quantità di proteine nell’alimentazione. Si aggiunge per esempio un tritato di arachidi nelle pietanze, oppure dei piccoli pesci fritti dal gusto molto forte che vengono dalla costa e si chiamano omená.
La carne dei würstel della fabbrica non è delle più genuine, come tutte le carni trite industriali, ma appunto è adorata dai bambini e non solo, ed oltretutto è più economica di altre. Ieri sera a cena le abbiamo cucinate, due a testa, e se le sono godute fino in fondo. A tavola, sulla scia della gioia per la pietanza ghiotta, sono iniziati aneddoti ad essa connessi.
I bimbi più piccoli hanno cominciato a raccontare che loro, quando ancora vivevano in baraccopoli, le mangiavano. Colpiti da queste affermazioni fatte da più di uno di loro, abbiamo chiesto il perché, dato che non è un cibo così accessibile, sicuramente non per i più poveri. Ascoltare questa verità è stato difficile, è una di quelle cose che si preferirebbe semplicemente non esistessero, ancora di più quando sono raccontate con il sorriso sulle labbra per l’ingenuità della bocca da cui vengono pronunciate.
Baba Yetu, in Swahili “Padre Nostro”, è un altro centro della Comunità che sorge nel cuore di Soweto, la baraccopoli accanto al nostro quartiere, dove non si può avere la certezza di quante persone vivano, si dice all’incirca ottomila, stipati in baracche di lamiera, senza luce e acqua corrente, tra lavori a giornata per poter mangiare la sera e tanta povertà, non solo economica, ma anche sociale e culturale. Per andare a Baba Yetu bisogna scavalcare più volte un solco che attraversa la stradina di terra battuta, dentro al quale defluisce un liquido maleodorante, più di quelli che scorrono in altre stradine della baraccopoli.
Più ci si avvicina a una baracca che ci si trova sulla propria sinistra, più l’odore si fa forte, diventa nauseabondo e poi vomitevole. Si passa il cubo di lamiera, fuori dal quale ci sono sempre persone che lavorano e trasportano taniche, un tempo di colore giallo, su carriole pesanti e luride.
Ci ho messo un po’ di tempo a capire, ma in quei jarrican, le taniche, ci sono scarti di carne, le interiora e il sangue dei maiali, che per la fabbrica sono rifiuti, ma approdano a Soweto non come tali. Vengono portati lì, dove vengono “puliti” e rivenduti. Per la strada si trovano persone che friggono le interiora e le rivendono. A Kahawa West si usa molto mangiare il matumbo, l’intestino fritto o stufato, oppure il moturá, sanguinaccio, ma delle mucche, controllato e cucinato fuori dalle macellerie. A Soweto non ce lo si può permettere ed è per questo che vengono acquistati gli scarti della fabbrica, per farne ancora cibo, ancora “business”, per i poveracci che vivono in quelle strade e per i quali è un piatto più che prelibato. Fuori da quella baracca c’è odore di morte, un odore che ti entra nelle narici e ti toglie il fiato. Solo quando esci da quella scia riprendi a respirare.
Ma che cosa ha a che fare tutto questo con la nostra buona cena di ieri sera? Ebbene, c’entra, e non poco, anzi, è connesso in un modo tragico, direi.