Scritto da Tommaso Gennaro, volontario in Servizio Civile in Kenya, a Nairobi
“Il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”
Vita in Swahili, lingua africana ufficiale del Kenya, significa guerra. In tutta la sua beffarda ironia, questo accostamento stonato mi ha dato modo di riflettere sui contrasti quotidiani che mi trovo ad affrontare, sulle assurdità e contraddizioni di questa terra. Ma soprattutto mi ha portato a realizzare che veramente qua, in un’anonima periferia di Nairobi, la vita può essere una guerra.
GENESI DI UN CONFLITTO
Esistenze al confine
Perché per la maggior parte delle persone confinate a Kahawa West, nell’estrema periferia della Contea della capitale, alzarsi la mattina significa una nuova battaglia per mettere qualcosa sotto i denti, come per i tanti kibarua, lavoratori a giornata che cercano quotidianamente che il fato li assista. Ma per i più le opportunità lavorative sono un’utopia, l’assistenza sociale da parte dello Stato è del tutto inesistente, lasciando così questi dimenticati a loro stessi, ridotti a calpestare la loro stessa spazzatura, perché un bidone dell’immondizia nemmeno esiste in questa parte di mondo. Tutto questo in un Paese dove il tasso di povertà è in aumento e più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà ed è multi-dimensionalmente povera, ovvero carente in almeno tre dei bisogni fondamentali quali l’alimentazione, l’educazione, la salute, l’acqua, la protezione dell’infanzia, l’alloggio e i servizi igienici.
Camminando tra le vie di questa periferia, fatico a vedere soddisfatto anche solo uno di questi bisogni.
In una città dove la frattura sociale ed economica è evidente anche nella suddivisione settoriale dei suoi quartieri, dove ai pochi benestanti fa da contrasto l’incredibile moltitudine di indigenti, vittime di una società e di un certo modello di sviluppo che li ha portati a trovarsi relegati a vivere o in spogli e tristi cubi di cemento o in quelle che ad oggi sono circa quaranta baraccopoli, i cui abitanti superano di gran lunga la metà della popolazione totale di Nairobi. Intrecci di lamiere e ruggine, labirinti di miseria e sciagure. Miscuglio di nauseanti odori di canali di scolo e spazzatura, di viscere animali e alcol.
Costretti a combattere per dare al giorno la dignità di un senso, a lottare contro un destino ostile, cercando disorientati un filo di Arianna, tentando di trovare un pertugio tra le sbarre di questa prigione chiamata vita.
Una realtà che ti rende perdente in partenza. Prigionieri di guerra. Prigionieri della propria vita.
E ciò che più mi colpisce è come troppo spesso questa stanca esistenza sfoci in quella che appare come una desolante rassegnazione, uno sventolio di bandiera bianca a mostrare timidamente che loro ci sono, ma non più disposti a combattere questa vita. Necessità e bisogno che lasciano il passo alla rinuncia, alla resa. Ed è muovendomi tra loro che mi rendo conto di quanto possa risultare faticoso anche combattere una vita, non solo una guerra. E tutto diventa un controsenso, tutto si ribalta e in qualche modo si scontra contro quei buoni propositi e quella bontà che si cela dietro il senso del mio trovarmi qua, guidato dalla mia voglia di dare un contributo positivo in una realtà in affanno, cercando, fiducioso nel valore dello scambio e dell’incontro, di portare, nel limite delle mie possibilità, un po’ di giustizia o un’alternativa, di portare un sorriso a chi l’ha perso da tempo, di lasciare in qualche modo qualcosa di me, spronato dalla mia voglia di scoprire, di imparare e di farmi ponte tra mondi differenti. Ma il terreno su cui poggiarmi, che ho trovato da questa parte, è molto fragile, inospitale e danneggiato.
Fare un piccolo passo verso l’unione di un’umanità troppo frammentata e che qui, a prima vista, mi appare ostile.
Però, vivendo in una Children’s Home, immerso totalmente nella quotidiana condivisione di vita con questi bambini e ragazzi, è facile capire, nonostante gli inciampi e le difficoltà lungo il percorso, che proprio qua sta il punto di partenza, in questi germogli pronti a fiorire, in queste giovani speranze di vita. Tuttavia, voltando appena lo sguardo, un’altra moltitudine di germogli appaiono appassiti prima si sbocciare, rintontiti da esalazioni di colla o di un fazzoletto intriso di kerosene, buttati per strada come carta straccia, che risulta veramente difficile da raccogliere.
Ma nascendo, crescendo e vivendo in questa atroce realtà, in cui troppe esistenze sbiadiscono in sfocate assenze, dove il lumicino della speranza diventa sempre più fioco, anche l’incontro con l’altro rischia di perdere la sua meraviglia, freddo e insignificante. Infastidito da occhi che scrutano il mio passaggio, mi sembra di divenire la raffigurazione del superficiale preconcetto dell’irraggiungibile uomo bianco benestante, che ha tutto fuorché problemi. Quegli occhi disillusi, quei disincantati sguardi, specchio di un’anima assopita. Il mio cammino inciampa in ghigni e grugni. Tutto appare grigio e fosco, la pura e genuina curiosità verso l’altro rischia di cedere ad insulsi pregiudizi e taciute ire. Per un attimo mi sembra di smettere di essere una persona, sono moneta itinerante, mi tramuto in una mera e avida opportunità. Un succulento boccone per gli affamati. Una disumanizzazione relazionale.
E forse anch’io inizialmente, circondato da tante assenze, mi sono sentito un po’ mancare.
Dov’è la vita in tutto questo? È vita questa?