All’altezza di tutti
servizio civile italiaScritto da Andrea Petruzzi, volontario in Servizio Civile a Camaiore (LU) nel progetto “2020 Se mi dai la mano cresco”
Quando ho deciso di fare domanda per il servizio civile universale non avevo idea della portata della scelta che stavo facendo, né del reale impegno che essa avrebbe comportato. Volevo fare qualcosa di diverso da ciò che studiavo all’università (avevo quasi concluso la mia laurea in Lettere Antiche), ma soprattutto desideravo fare qualcosa, sentirmi attivo, magari anche utile! E poi c’era il mio grande desiderio di insegnare a scuola, perciò un progetto che aveva a che fare con “educazione e formazione” e “minori e giovani” ha subito attirato la mia attenzione.
Così ho fatto domanda per un progetto in casa famiglia: una delle tante dell’associazione, possibilmente quella più vicina.
Quando per la prima volta mi è stato ribadito chiaramente che avrei avuto a che fare con gravi disabilità, ho dubitato un po’ di me: “Non ho mai accudito un disabile, né ci ho mai giocato, ed ora tutto insieme? E per un anno intero?”. Ho avuto paura di non “essere all’altezza”, di non esser capace, ma con inaspettata prontezza di spirito mi sono detto che quell’imprevisto poteva essere una chiamata a scoprire qualcosa di nuovo e a misurarmi con i miei e gli altrui limiti.
Primo giorno in casa famiglia. Chissà perché, nonostante le parole “casa” e “famiglia”, mi aspettavo di trovare una specie di clinica o un ospedale, ma di nuovo la realtà ha superato la mia povera fantasia. Mi sono ritrovato in una casa vera (solo un po’ più colorata del solito), ma soprattutto in una vera famiglia (solo un po’ più grande degli standard)!
Ma la sorpresa più grande è derivata dal mio iniziale timore sull’incontro con la “Disabilità”. Ebbene, in tutti questi mesi di servizio, io la signora Disabilità non l’ho ancora incontrata. Ho incontrato però alcuni ragazzi davvero speciali.
Non uso “speciali” come eufemismo per “malati”: c’è davvero dello straordinario in queste vite. Questi ragazzi hanno delle oggettive fragilità, in certi casi così gravi da non permettere loro di muoversi, di parlare o di mangiare e respirare autonomamente. Ero così abituato alla mia “normalità” che non avrei creduto che tali fragilità permettessero anche solo di sopravvivere. E invece Rosy, Giuseppe, Francesco, Elena, Tiziano e la piccola Nicole vivono, stringono relazioni, danno e ricevono amore.
Queste relazioni sono la cosa più importante che mi porto dietro dall’esperienza di servizio che sto vivendo; questa casa è diventata anche la mia casa, questa famiglia la mia famiglia.
Il tutto è arricchito dalla progressiva consapevolezza dell’aggettivo “civile”. Il mio servizio con la Comunità Papa Giovanni XXIII non è un’esperienza di volontariato (bellissima e utile, ma in qualche modo “extra”), ma qualcosa di più sostanziale: è una forma di partecipazione attiva alla cittadinanza. L’ho imparato nei momenti di formazione previsti dal percorso – a volte un po’ noiosi, ammettiamolo, ma fondamentali. Condividere queste riflessioni con gli altri volontari e raccontarsi le reciproche esperienze ha fatto nascere una bellissima amicizia, genuina e matura, un'”amicizia civile”!
Stando all’altezza di chi è più fragile, sto imparando a non aver più paura di “non essere all’altezza”, e anzi mi fa desiderare di essere protagonista in una società civile che non lascia indietro nessuno, all’altezza di tutti.