Il valore della vita, a tutti gli L. di La Paz

servizio civile estero

Scritto da Sara Baldelli, volontaria in Servizio Civile a La Paz nel progetto “CASCHI BIANCHI CORPO CIVILE DI PACE 2021 – LOS ANDES”

L. era un ragazzo che incontrammo durante una delle nostre prime uscite in strada.

Era inizio Settembre, eravamo arrivati da poco più di un mese in Bolivia e nonostante l’esperienza del “servizio calle” – strada –  non fosse qualcosa a me completamente nuovo e sconosciuto, il contesto e i posti in cui ci recavamo ad incontrare le persone per me erano ancora qualcosa di sconvolgente, al di là di ogni dignità umana. Luoghi nascosti ai margini della città di La Paz, vicino a fiumi trasformati in discariche maleodoranti a cielo aperto, tra montagne di plastica ed immondizia.

Di quel primo incontro e delle tante persone che erano lì quel giorno, tra cui L., mi ricordo quindi poco, ero perlopiù intenta a guardarmi attorno incapace di credere e di capacitarmi di come il consumo, o ancor meglio la dipendenza, dall’alcol potesse portare le persone a vivere o a scegliere di passare parte delle loro giornate in tali condizioni, buttati a terra tra la sporcizia, la polvere, i topi, il cibo marcio e l’odore di escrementi.

La seconda volta che ritornammo in questo luogo denominato “La Playa”, tra una chiacchiera e una canzone, il gruppo iniziò a raccontarci la storia di L., dicendo che era un giovane di quasi 40 anni, che però a causa del suo consumo ormai incontrollato, aveva perso i contatti con la famiglia e la possibilità di potersi permettere e mantenere un luogo dove vivere, motivo per il quale la sua dimora era diventata “la carpa“, come la chiamano loro, ossia quella sorta di accampamento costruito con qualche bastone, teli di plastica e lamiera a fargli da tetto, e materassi sudici a terra, che ci trovavamo davanti ai nostri occhi. La carpa è sempre piena di persone che passano lì le loro giornate a bere in gruppo ed è sempre pronta ad accogliere per qualche notte chi è troppo ubriaco per tornare a casa, ma i suoi abitanti fissi sono davvero pochi, solo chi ha perso davvero tutto ne fa la sua casa ed L. era uno di questi.

Facendo leva sulla sua condizione e la sua giovane età il gruppo iniziò quindi ad insistere sul fatto che dovessimo portarlo in Comunità affinché si riabilitasse e potesse riprendere in mano la sua vita, questo però senza lasciar esprimere un’opinione al diretto interessato, per il quale tutti stavano cercando di prendere decisioni. E infatti nel momento in cui interpellammo L. per chiedergli cosa ne pensava, consapevoli che nonostante tutto in quelle condizioni di forte ebbrezza non lo avremmo potuto portare con noi, con un sorriso e gli occhi persi nel vuoto ci rispose che non gli andava. Gli spiegammo che però in qualsiasi momento in cui gli sarebbe venuto il desiderio – o la lucidità – di pensare di aver voglia di cambiare, anche solo per la stanchezza di continuare a vivere in quella maniera, avrebbe solo dovuto presentarsi sobrio davanti alle porte della Comunità di San Vincente, una delle comunità terapeutiche dove svolgo il mio servizio civile, e ci sarebbe stato sicuramente qualcuno pronto ad accoglierlo. Lui, con la convinzione che solo un grande dipendente ti sa dare, tanta è l’abitudine a cercare di convincere le persone che lo circondano che un giorno cambierà, ci rispose che sarebbe andato l’indomani stesso. Dentro di me sapevo che non sarebbe mai successo, ma un piccolo barlume di speranza c’era.

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