Storie di confine: vivere nei boschi per superare l’ennesima barriera

volontariato europeo

Scritto da Christian Cibba, volontario S.V.E.  a Salonicco (Grecia)

domeni è un piccolo paesino del nord della Grecia. Un gruppo di case nel mezzo della campagna, circondate da campi, a poche centinaia di metri dal confine con la Macedonia (FYROM). Nei boschi che costeggiano il confine vicino a Idomeni vivono intere famiglie di migranti, che ogni giorno aspettano il momento opportuno per cercare di valicare la frontiera. Ogni giorno decine di uomini e donne di ogni età arrivano in questa striscia di terra trovando rifugi d’occasione che a volte diventano il loro alloggio per settimane e settimane. Alcuni di loro sono in Grecia da anni e parlano greco, altri sono appena arrivati sul territorio ellenico, ma tutti stanno cercando di andarsene, con l’intenzione di raggiungere il centro e il nord Europa. Sono per la maggior parte asiatici, soprattutto siriani e afghani.
La rotta di questa nascosta e poco clamorosa via di immigrazione non è sempre la stessa. Nei Balcani la vulnerabilità dei confini cambia continuamente e i trafficanti si adattano facilmente, cambiando i loro percorsi ogni volta. Per i migranti dei boschi di Idomeni, una volta riusciti ad entrare in Macedonia il passo successivo è la Serbia, poi l’Ungheria, dalla quale di possono dirigere verso la Slovenia da cui è poi possibile tentare di valicare il confine italiano, oppure continuare a risalire l’Europa attraverso la Slovacchia, la Repubblica Ceca e l’Austria e cercare poi di entrare nel paese che sembra essere il “sogno” di tutti: la Germania. “Lì possiamo trovare un lavoro” ci ha detto un giovane afghano, scappato dl suo paese per l’interminabile status di guerra ed entrato da poco in Grecia attraverso il confine con la Turchia. Quasi tutti entrano in Grecia dalla Turchia, attraversando il fiume Evros, che funge da confine naturale per quasi tutto il confine politico tra i due paesi. I trafficanti che gestiscono il flusso di immigrazione clandestina su quel confine sono per la maggior parte turchi. Chiedono tra gli ottocento e i duemila euro per garantire un posto su imbarcazioni di fortuna, spesso dei gommoni con qualche remo, con cui è possibile raggiungere la sponda greca del fiume.
Durante l’inverno, quando grosse parti del fiume gelano, il pericolo di non raggiungere l’altra sponda è anche più alta. Un altro afghano che vive da due mesi nei boschi di Idomeni, ci ha raccontato di aver perso sua moglie durante l’attraversamento. Quando è cascata in acqua lui ha supplicato i trafficanti di fermarsi e provare a cercarla, ottenendo come risposta la minaccia di finire anche lui in acqua insieme ai suoi figli, di due e quattro anni, se non si fosse subito calmato. Un altro giovane migrante, ivoriano, ci ha raccontato di come uno dei due gommoni con i quali stava attraversando il fiume è affondato con venti persone a bordo. “Gridavano, volevano li aiutassimo – ci ha detto – ma era impossibile tornare indietro con i remi e controcorrente, e non c’era nemmeno posto sul nostro gommone, saremmo affondati anche noi. Il gommone è affondato e non abbiamo più visto nessuno di loro”. Quelli che riescono a passare l’Evros spesso continuano il loro lungo viaggio verso la “ricca” Europa e Idomeni, a quattrocento chilometri di distanza dal confine greco-turco, i suoi boschi e il fiume Vardar, rappresentano la loro prossima sfida. Alcuni migranti cercano di passare il confine sfruttando la ferrovia che corre lungo quei boschi che è quella che collega Salonicco con Skopje e poi risale i Balcani. Alcuni migranti si nascondono sotto i vagoni dei treni; qualcuno, forse, è anche riuscito a passare, ma negli ultimi tre mesi, secondo quanto testimoniato da un macchinista che abbiamo incontrato alla stazione di Idomeni, sono stati trovati due cadaveri, due migranti rimasti schiacciati dai treni in corsa. Sono in centinaia a vivere lungo il confine, divisi in piccoli gruppi, spesso a seconda della loro nazionalità, in attesa che i trafficanti riescano a farli passare, o provando a farlo per proprio conto. Come un giovane siriano, al massimo ventenne, che abbiamo incontrato vagando nei pressi del fiume Vardar. È entrato in Grecia un mese prima del nostro incontro, e dopo qualche settimana ad Atene ha deciso di tentare di raggiungere la Germania. Ha perso di vista suo fratello durante il lungo viaggio, ma “ci incontreremo di nuovo in Germania” ci ha detto sicuro.
Nei boschi di Idomeni vivono in centinaia, ognuno con la sua storia, le sue sofferenze, le sue speranze; tutti vivono in condizioni precarie, soffrendo il freddo, la fame, la sete, abbandonati a loro stessi. Eppure c’è qualcuno che ha cominciato ad interessarsi a loro e a cercare di aiutarli. Singoli cittadini del luogo e alcune associazioni hanno cominciato a raccogliere donazioni e a portare cibo, coperte, vestiti, medicine. Una domenica di fine gennaio ci siamo uniti ad una di queste “carovane della solidarietà” ed è lì che abbiamo raccolto alcune delle testimonianze appena citate. Siamo partiti da Salonicco con l’associazione “Stop the Racism” e i dottori di “Social Practice”, abbiamo fatto tappa a Kilkis, dove altre associazioni si sono unite a noi, per poi risalire fino a Idomeni. Circa venti automobili. Cariche di cibo, vestiti, scarpe, coperte, medicine e qualche gioco per i bambini.
Prima di inoltrarsi sulle stradine che portano al confine il convoglio si è fermato nel “centro” di Idomeni e una delegazione è andata alla piccola caserma di polizia che ospita celle per un massimo di dieci, dodici persone, quasi sempre occupate da migranti che hanno cercato di passare il confine. Attraverso l’ultima stradina in terra greca siamo arrivati fino alla ferrovia per poi inoltrarsi sul sentiero che corre lungo il confine, costeggiando i boschi e il Vardar. Durante il percorso abbiamo raggiunto quattro grandi gruppi di migranti, ai quali sono stati distribuiti i viveri e i vestiti raccolti dalle associazioni durante la settimana. Tuttavia, “anche se avessimo a disposizione interi containers – ci ha detto Vassilis Tsartsanis, un giornalista della zona – non potremmo comunque risolvere i problemi di queste persone. Sono vittime della burocrazia, dei trafficanti, rappresentano un enorme affare economico per molti. Spesso sono anche vittime di pestaggi, soprattutto da parte della polizia di frontiera di Skopje, ci è successo diverse volte di prestare soccorso a persone con la testa spaccata o qualche osso rotto”. “Ogni volta che vengo qui – ha testimoniato una giovane studentessa di Salonicco – soffro molto il freddo. Quando sono venuta a dicembre era freddissimo, sono stata nei boschi qualche ora, di giorno, e le mie gambe tremavano dal freddo. Ricordo che iniziò a soffiare un vento gelido e fortissimo, sentii un bambino piangere e vidi la madre che cercava di tenerlo al riparo dal freddo; dopo poco noi ce ne siamo andati. Siamo saliti in macchina e abbiamo acceso i riscaldamenti e mi sono detta, ma cosa ci fanno queste persone qui fuori?”.
Durante la distribuzione del cibo, dei vestiti, delle coperte, i medici di Social Practise hanno visitato decine di persone. Virus e comuni influenze e raffreddori, problemi allo stomaco e gastroenteriti, causato soprattutto dalla mancanza di acqua potabile. Alcuni uomini avevano escoriazioni ed ematomi, “ci hanno detto di essere stati picchiati dalla polizia sia macedone che greca” ci ha detto uno dei medici.
La situazione è allarmante e anche se con la primavera le migliori condizioni meteorologiche renderanno meno dura la vita nei boschi, per la stessa ragione il flusso di persone che si riverseranno al confine sarà maggiore. Trovare una vera soluzione non è affatto facile e include decisioni politiche a tutti i livelli, dalle istituzioni locali, alle politiche di immigrazione greche e europee. Tuttavia le “missioni” spontanee nate dalla società civile, queste carovane della solidarietà che spesso avvengono di domenica e che vi abbiamo appena descritto, sono senz’altro apprezzabili. Alcuni dei volontari ci hanno confidato che molte persone non capiscono il motivo per il quale stiano dedicando risorse ed energie per aiutare persone che stanno attraversando il paese, soprattutto considerando i problemi che la Grecia e i greci stanno affrontando in questo momento. Sono storie che si ripetono, barriere che si interpongono tra le speranze di alcune persone e le paure di altre. Barriere reali fatte di polizia di frontiera che picchia e arresta, e barriere mentali fatte di persone che si girano dall’altra parte o incitano all’odio. Nel mezzo ci sono milioni di migranti che le guerre, le catastrofi naturali e la povertà spingono fuori dalle loro terre. A Idomeni stanno solo cercando di varcare l’ennesima barriera reale e per fortuna c’è anche qualcuno che cerca di rompere quella mentale tendendo loro una mano.