Scritto da Jonathan Hernandez Henriquez, volontario S.V.E. presso Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Da quattro mesi sto vivendo e lavorando a CasaMondo, una struttura di accoglienza in una zona rurale della provincia di Rimini, in Emilia Romagna, dove vivono circa 16 migranti richiedenti asilo, in attesa di un documento che permetta loro di vivere in Italia.
In questo piccolo paese, San Savino, circondato da polli, cipressi e tazze di caffè, ho cercato di fare il possibile per portare un po’ di supporto logistico all’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, responsabile del progetto SVE. Il mio contributo si è tradotto nella progettazione e redazione di diverso materiale promozionale e di sensibilizzazione, nello svolgimento di diversi laboratori di Intercultura nella scuola pubblica e dando una mano nella struttura di CasaMondo.
Vivere in mezzo a questa torre di Babele è stato come bere all’istante un cocktail di lingue, città, culture, progetti, idee e persone incredibili. Ma l’orologio non si ferma. Sono giunto a metà strada e continuo ad avere la sensazione di essere arrivato ieri. Il tempo sta volando. Quindi, qual è il bilancio di questa follia chiamata SVE?
a) pazienza.
Il Servizio volontario europeo è un piano di educazione non formale: tutto ruota intorno a sperimentare in prima persona una realtà diversa, imparando per tentativi ed errori. Va al di là di parlare un’altra lingua o adattarsi al ritmo di un’altra cultura: alla fine, si tratta di tirar fuori il meglio di te stesso e di essere aperto a tutti i tipi di situazioni e personaggi, alcuni grandi e alcuni meno grandi.
Nel mio caso particolare, condivido la casa con i ragazzi richiedenti asilo, persone che vivono una situazione di disagio sociale data da lontananza culturale e linguistica, dall’esistenza di pregiudizi nei loro confronti e dalla lontananza dagli affetti familiari. Le attività che portiamo avanti con loro sono necessarie ma non mi sembrano mai abbastanza.
Sono persone senza una chiara prospettiva per il futuro, che vivono giorno dopo giorno in attesa di una Commissione di identificazione, un permesso per vivere in dignità, in regola. E come ogni situazione stressante in cui vivono persone, e non robot, sorgono tensioni e conflitti che non possono essere cambiati da un giorno all’altro, tra cui alcuni problemi che non possono essere risolti per niente.
Condividere questo tempo con loro mi ha insegnato che non tutto può essere organizzato, ci sono cose per le quali non esiste una risposta rapida, ed è proprio per questo che con il tempo ho imparato ad apprezzare le persone, non solo per quello che possono diventare, ma anche così come sono ora, anche con difetti e imperfezioni.
b) coraggio.
Ci vuole fegato per andare in un paese di cui non si sa quasi nulla. Ci vuole faccia tosta per accettare l’invito di un insegnante a seguire  una classe di studenti senza sentirsi all’altezza.  Ci vuole determinazione a cadere con stile e ridere di te stesso quando hai preso un granchio. E ci vuole coraggio per cambiare gli atteggiamenti e agire. Gran parte di questo programma si basa su esplorare, innovare, e sporcarsi le mani, per quello che ci vuole coraggio. In caso contrario, tutte le opportunità di evoluzione sono sprecate.
Fortunatamente per tutti, il coraggio è una cosa contagiosa. Ho trovato qui molte persone che non si fermano alle parole ma che arrivano ai fatti, che vivono in modo nonviolento, insegnano a scuola a pensare in modo critico e che rivendicano concretamente i diritti delle persone. Sono persone normali, non eroi o martiri, e questo è il motivo per cui la mia esperienza in Italia si sta dimostrando eccezionalmente ricca.
c) comprensione.
Ogni volta mi rendo conto di più che la nostra vita di generazione ultra-connessa è condizionata da strutture mentali estremamente povere, scarsa memoria e poca o nessuna visione del resto del mondo in cui viviamo o del futuro. Ma allo stesso tempo sono convinto che tutto questo non sia scritto nella pietra, si può cambiare, dobbiamo solo esserne consapevoli. Abbiamo già gli strumenti per connetterci con la realtà, essere coinvolti in forma lucida e onesta con gli altri e per costruire valori interni duraturi e profondi. Non è facile (perché nessuna cosa veramente importante lo è) esige tutta l’immaginazione, energia e costanza che uno ha.
In parole povere, fare volontariato a CasaMondo mi sta costringendo a mettere in discussione aspetti di me che ritenevo giusti e addirittura indispensabili e valutarli in una nuova prospettiva, che altrimenti non avrei potuto sperimentare, e questo lo apprezzo. Mi sta dando per 6 mesi una nuova lingua e una nuova terra, e soprattutto l’opportunità di aprire gli occhi al mondo, crescere come persona e incontrarmi con le vite di altre persone che lavorano per la pace e la solidarietà quotidianamente. Mi sento fortunato per questo, e invito chi ne avesse la possibilità ad assaggiare quest’esperienza.