Scritto da Feirouz Al Agkmpari, volontaria S.V.E. presso Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
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La nostra vita è piena di esperienze. Ogni giorno, ogni momento cerchiamo qualcosa o qualcuno che possa aiutarci a capire meglio il mondo e darci un motivo per continuare a lottare per esso. Per me il mio soggiorno alla casa della Comunità Papa Giovanni XXIII per minori non accompagnati a Reggio Calabria, è stata una di queste esperienze.
Reggio Calabria è una città italiana che è diventata un punto di benvenuto per molti immigrati e rifugiati che vengono in barca dall’Africa. Molte di queste persone che arrivano in Italia sono minori solitamente soli, il che significa che questi ragazzi dai loro paesi all’Italia hanno passato molti ostacoli e difficoltà per raggiungere la loro destinazione. Così, quando sono arrivata alla casa, sapevo solo che avevano fatto un viaggio pericoloso, ma in realtà non sapevo cosa significasse esattamente questo.
Nella casa dove sono andata sono ospitati 12 ragazzi. 12 personalità completamente diverse, 12 storie diverse, 12 diverse vite che condividono un obiettivo comune: un futuro in Italia. Quando arrivai in Calabria non avevo idea di come fosse la casa, la gente e la situazione, ero pronta a fronteggiare qualsiasi cosa. Vivere con loro per queste due settimane mi ha colto totalmente impreparata. Sapendo già che loro non sono “come gli altri ragazzi” ti riempie un senso di paura riguardo a come dovresti avvicinarti, cosa dovresti dirgli. Ma quello che ho capito il primo giorno è che malgrado il loro passato rimangono bambini che vogliono giocare, divertirsi e imparare. Quindi questa sensazione di paura scompare abbastanza rapidamente con la prima partita a Ludo.
Giorno dopo giorno ho iniziato a vedere oltre l’immagine tipica dell’immigrato che avevo in mente, ho cominciato a vedere le persone dietro questo, gli adolescenti che si nascondono dietro questo termine. Ridono, fanno scherzi, giocano, ma nello stesso tempo sono stata testimone dell’altro lato: l’ombra nei loro occhi quando parlano delle loro case, delle loro famiglie, che più o meno si relazionano con i loro figli o figlie di 15 anni per inviargli qualche soldo, dopotutto quello che era l’obiettivo in primo luogo, la preoccupazione per il loro futuro, soprattutto quando hai diciassette anni, incinta, con un padre assente e condizioni indefinite di gravidanza.
È vero. Non sono come gli altri ragazzi. Sono più duri, fragili e hanno bisogno di essere amati in modo da poter continuare il viaggio che non è ancora finito. Allora, in questa casa questi ragazzi trovarono una Casa con due volontari, Valentina e Leonardo, che gestiscono la casa e si prendono cura di loro, e Adriana la nonna. Tutti cercano di sostenerli e dargli la possibilità di una vita normale dove possono andare a scuola, avere amici e sognare senza timore di domani.
Ma come si può dimenticare ieri? Ascoltando un po’ le storie, il loro cammino, ascoltando ciò che hanno passato, bloccati in celle per giorni senza cibo o acqua, vittime di violenza e abusi sessuali nella tenera età di 10 o 13 anni ti riempie di rabbia e delusione e una domanda: perché? Perché questi ragazzi dovevano lasciare le loro case ora? Perché vengono trattati come figli di un Dio minore? Perché nessuno cerca di fermare questa situazione quando tutti sanno? Ma allo stesso tempo ti senti più ottimista quando li vedi vivi, ancora sorridenti con la speranza, almeno ora possono aspettare qualcosa di meglio, essere trattati con dignità e rispetto.
Il passato di questi bambini forse ora sembra un po’ lontano ma per altre persone è ancora l’oggi. Mentre ero a Reggio Calabria ho avuto l’opportunità di visitare il porto con il Responsabile della casa, Giovanni, mentre stava arrivando un’altra barca in Italia. Ogni volta che ritorno a quel giorno, vedo due immagini: da un lato la gente sulla barca mentre stava aspettando di scendere con gli occhi pieni di felicità e speranza nei loro volti che sono stati salvati, sopravvissuti a questo viaggio pronto per iniziare la loro nuova vita e costruirla senza paura continua. Girando gli occhi verso l’altra parte si vedono la polizia i medici e i volontari pronti ad accoglierli in questa nuova realtà con una bottiglia d’acqua, merendine, maschere e impronte digitali. Questa immagine suppongo possa generare molti sentimenti, da un lato si vedono molte persone che stanno dedicando una parte del loro tempo personale cercando di gestire una situazione spiacevole e che consuma molte energie, aiutando queste persone dicendo loro che tutto andrà meglio da ora in poi, e questa sensazione è sincera.
Dall’altra parte vedi il sistema. Il sistema che tratta le persone come numeri, casi e un problema sociale che dovrebbe essere mantenuto entro i confini senza lasciare che questi popoli fuggano nell’ “Europa Civilizzata”. Queste persone che non hanno lasciato la loro casa, la loro vita perché volevano. Sono stati costretti a lasciare, sono scappati da un inferno che cerca il paradiso occidentale il quale, però, è proibito. I loro volti sono stanchi e sporchi ma illuminati di speranza. Il mio invece era un po’ preoccupato che forse non ci sono ancora, forse la vita migliore deve aspettare un po’ di più …
Ma tutti questi sentimenti confusi e il senso di depressione improvvisamente sono scomparsi quando sono tornata a casa. Una partita di Ludo con i bambini mi ha ricordato che fino a quando credi in qualcosa, nulla è perduto. Quindi, dopo settimane che ho lasciato la Calabria, tutti questi pensieri e ricordi, ballare con i bambini sul balcone o insegnargli a nuotare in mare, mi lasciano con un sorriso in volto e spero. Perché io so che sono stati fortunati, hanno una famiglia , strana, ma una famiglia. Ora possono pensare ad un futuro più ottimista, sorridere, essere bambini e sognare per il loro futuro, anche se hanno già vissuto una vita.
Immaginavo che il momento più difficile a Reggio Calabria fosse quando dovevo dire addio a loro e non essere in grado di rispondere quando tornerò, se tornerò. È sempre difficile partire perché lascerai parte di te, ma questa volta ho anche portato qualcosa con me. Ho portato con me la loro energia, la loro innocenza e, soprattutto, la loro forza. E lì, in quella piccola città d’Italia, ho trovato i miei eroi, i miei piccoli eroi che sono diventati la mia motivazione a cercare di costruire un mondo in cui tutti avranno la possibilità di una vita fondata sulla dignità e sulla libertà. Quindi, grazie ragazzi che mi avete mostrato che non importa quanti anni hai, puoi essere un eroe, e puoi sempre dire “F*****o mondo! Sopravvivrò e ti farò cambiare”.
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