Come ti è venuto in mente di andare ad abitare laggiù?

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Questa scelta nasce sia dal desiderio di mettermi alla prova, sia dalla volontà di restituire dignità a persone che l’hanno persa o, peggio, mai avuta”.

Luca ha 28 anni, è laureato in Lettere e Beni Culturali ed è tuttora studente. Il 13 novembre 2017 ha iniziato il Servizio Civile presso la Casa Madre del Perdono, una struttura dove sono ospitati detenuti che scontano la pena in misura alternativa al carcere. E tuttora, a distanza di quasi due anni, vive ancora lì. Ecco cosa ci raccontava a metà del suo servizio civile.

“Piano piano e in punta di piedi, un po’ guardingo, timoroso e leggermente in imbarazzo. Esattamente in questo modo, il dieci novembre 2017, entravo per la prima volta nella “Casa Madre del Perdono”, dove, di lì a pochi giorni, avrei intrapreso il mio anno di Servizio Civile Nazionale con la Comunità Papa Giovanni XXIII.
Sarò passato centinaia di volte di fronte a questa struttura. Per ognuna di esse almeno un pensiero, un dubbio o una domanda su cosa succedesse in quella casa. Oggi, maggio 2018, scrivo proprio da quella casa, perché ho scelto di venirci ad abitare. Cos’è successo in questi pochi mesi?

Ho semplicemente trovato delle persone. Per meglio dire, ho incontrato delle persone. Qui, come in nessun’altra parte, ho apprezzato il reale significato che si cela dietro l’incontro: tutti i muri che separano l’io dall’altro vengono giù, crollano. In questo modo, all’improvviso, le persone entrano a far parte della tua vita e tu della loro, attraverso una reciproca condivisione di ferite, difficoltà e ricordi che sono troppo pesanti per essere sopportati da soli. Per troppo tempo sono rimasti soli. Finora ho parlato di “persone”, in realtà, una relazione del genere permette di conoscere l’Uomo con i suoi talenti e le sue fragilità. Pertanto, alla Casa Madre del Perdono ho imparato ad approfondire anche la conoscenza di me stesso. È un cammino, un percorso in cui non si è più soli.

Elemento imprescindibile affinché tutto questo si compia è esserci, mettersi in gioco con tutto quello che si ha. Non servono le grande azioni, è sufficiente la volontà di voler bene: straordinario nella sua semplicità! Nasce una fraternità, una preoccupazione reciproca che consente di vedere il valore dell’Uomo come creatura di Dio, che possiede, senza alcuna distinzione, il diritto – dovere di amare ed essere amato.

Quindi, a coloro, in tanti, che mi chiedono “Come ti è venuto in mente di andare ad abitare laggiù? Con i delinquenti!”, rispondo: “Perché non avrei dovuto farlo?”. Quando si comprende il legame indissolubile che ci unisce tutti quanti, quando s’inizia a considerare l’altro veramente come un fratello, cosa potevo fare se non stare con loro a tempo pieno? Si tratta di un donarsi in maniera gratuita, senza pretese, proprio come avviene tra fratelli; ed infatti, come in un rapporto fraterno, tutto il bene che doni, anche di più, ritorna a te!
Ammetto la difficoltà nel comprendere simili regole di rapporto. In mio soccorso è arrivata la storia di una persona, trovatasi sola nell’adolescenza, costretta a vivere in strada, finita a delinquere per mangiare. Negli anni in cui questo avveniva, io non ero ancora nato, tuttavia ho provato un senso di colpa, la sensazione di essere venuto meno, in quanto uomo, ad una responsabilità: sarebbe stato sufficiente lo sguardo attento di una persona, disposta a comprendere le difficoltà che quell’uomo stava vivendo. Quel giorno sarebbe servito un fratello, purtroppo, quel giorno, siamo stati tutti figli unici”
Luca

La Casa Madre del Perdono nasce nel 2008 come pilota del “Progetto CEC: Comunità Educante con i Carcerati” dell’ Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (ad oggi sette i CEC in Italia ed uno in Camerun). Il significato: Comunità fatta di carcerati, ma anche di volontari e educatori per aiutarsi insieme; Educante (lat. educere) per “portare fuori” le potenzialità di ognuno; Con i carcerati e non “per”, il carcerato non è l’unico destinatario dell’azione educativa: tutta la società si educa alla solidarietà. Il progetto è il risultato dell’esperienza acquisita nel tempo dalla stessa Comunità nelle proprie strutture e dell’incontro con il metodo APAC, ideato da Mario Ottoboni alla fine degli anni Novanta nelle carceri brasiliane al fine di uccidere il criminale e salvare l’uomo. L’obiettivo del CEC e far sì che il detenuto diventi consapevole di sé, del grande valore della propria persona così da accettare ed ammettere di “sbagliare” per “sbagliare” sempre meno, “l’uomo non è il suo errore”(Don Oreste Benzi). Pertanto è necessario che la durata del percorso sia di almeno un anno. La scelta di intraprenderlo è nelle mani del detenuto, il quale dopo un congruo periodo di conoscenza (circa due mesi) è libero di accettare o meno il “patto educativo”. La valorizzazione della persona avviene attraverso attività mirate alla conoscenza di sé/dell’altro e attività ergo-terapiche. I risultati parlano chiaro: con il CEC la recidiva è stimata al 15%, con il sistema carcerario italiano è dell’80%; in termini di benefici economici: ogni singolo detenuto in carcere costa 200€ alla collettività, presso il CEC il valore della retta potrebbe essere di circa 50€ al giorno. Ad oggi però, i costi della struttura ricadono interamente sull’Ente, non esiste alcun riconoscimento istituzionale.