Dare voce agli invisibili
servizio civile italiaScritto da Alessandra Savatti e Roberta Satalino, volontarie in Servizio Civile a Castellana Grotte (BA) nel progetto “2020 Non una di meno”
Il nostro progetto è volto al contrasto della violenza e dell’emarginazione sociale correlate alla tratta per sfruttamento sessuale sul territorio nazionale e crediamo fortemente che sia stato lo stesso a sceglierci, piuttosto che il contrario e che noi, spinte dall’interesse verso l’argomento, vogliamo dare il nostro contributo alla difesa delle vittime di violenza. La sofferenza delle vittime di tratta deve esser vista come un iceberg poiché tutto ciò che l’immaginario collettivo – ma anche gli studiosi – possono pensare, in realtà rappresenta solamente quel 10% di punta che emerge. Tutto il dolore, tutte le esperienze subite, tutte le negazioni, tutto ciò che hanno dovuto abbandonare e tutte le sofferenze sono sommerse, spesso non riescono ad emergere e si nascondono nella profondissima sensazione di paura: paura di riporre nuovamente la loro vita nelle mani di qualcuno, paura di essere perseguitate ancora, paura per i trafficanti, paura di non riuscire a restituire quel debito che pesa come un macigno sul loro cuore e sul loro corpo, paura di non riuscire a prendersi cura da sole dei loro figli perché loro, come molto spesso accade, diventano mamme senza esser state figlie, paura di non imparare la lingua e di non riuscire ad inserirsi socialmente… paura di loro stesse poiché credono fortemente che l’unica fonte per la loro sussistenza (e quella dei loro cari) possa essere solo la strada. Nel percorso che abbiamo intrapreso è emerso come le vittime, seppur in maniera velata, mostrino un bisogno di amore, di sentirsi amate, di essere trattate da figlie seppur siano madri e dunque diviene necessario un rapporto di fiducia.
Chi intraprende questa causa deve donare fiducia e amore cieco, solo così può portare le vittime ad aprirsi come fiori! Ed è proprio da questo, credo, che abbiamo deciso di dare la nostra testimonianza mediante un’intervista effettuata alle nostre referenti Mina e Stefania, che concorrono e hanno abbracciato la causa divenendone pilastri fondamentali.
La prima domanda infatti renderà tangibile quest’ultima affermazione:
– Com’è partita la vostra esperienza nell’ambito della nonviolenza?
– “La nostra esperienza nell’ambito della nonviolenza parte proprio dalle origini, da un desiderio di pace e un desiderio di amore, da un desiderio di costruire dei ponti indipendentemente dalla religione, dalla razza, da chi si ha davanti” … – Mina continua -“Io personalmente lo associo molto al mio cammino di fede ed è per questo che dico che parte proprio dalle origini per me. Parte dalle origini del mio battesimo, del mio credo, credo che con la pace si possa davvero costruire un mondo nuovo. Per cui credendoci così tanto ho scelto di far parte di quest’ambito e anche dell’Operazione Colomba”.
– Come vi siete avvicinare alle questioni riguardanti l’anti-tratta?
Stefania risponde raccontando la sua personale esperienza di quando ha conosciuto Mina, con la quale sta creando e costruendo un cammino, un percorso, che continuano a portare avanti dal 2012: “Io mi sono avvicinata grazie all’esperienza del servizio civile, il mio progetto non riguardava il discorso della tratta perché all’epoca non si parlava proprio di questo, ma riguardava i minori e la disabilità. In casa famiglia Mina mi raccontava, spiegandomi tutto ciò che faceva la comunità Papa Giovanni XXIII, dell’esperienza dell’unità di strada. Successivamente partecipai ad una formazione generale a Rimini e in quell’occasione ci fecero visitare la casa delle ragazze e a partire e da quel momento mi sono incuriosita. In Salento c’era una presenza molto forte delle ragazze in strada, non solo sulla statale che collega Lecce a Gallipoli ma anche nella stessa città di Lecce dove io ho vissuto quasi 6 anni. Anche all’epoca io vedevo queste ragazze però non le vedevo, o meglio per me era normale fossero lì e non mi ponevo neanche il problema se lo scegliessero o meno, ero come assuefatta a quell’immagine tanto da non pormi alcuna domanda a riguardo. Le cose sono completamente cambiate nel momento in cui Mina ha iniziato a raccontarmi di varie storie di ragazze che erano state in accoglienza, di tutto ciò che c’è dietro la tratta. Poi nel tempo abbiamo pensato di organizzare anche noi delle unità di strada a Casarano in Salento. Era un 24 dicembre ed abbiamo dato inizio alle unità di strada. Mi ricordo benissimo quel giorno ed è stato un giorno in cui si è squarciato un mondo, si è aperta una finestra su qualcosa che non conoscevo, non immaginavo, nonostante le ragazze fossero in strada in pieno giorno mi sono resa conto come fossero totalmente invisibili per tutte le macchine che le passavano davanti (a parte quelle dei clienti ovviamente). Per cui da quel momento si può dire che siano state proprio loro ad aprirmi la strada rispetto a questo; e con il tempo la consapevolezza di questa ingiustizia è diventata davvero bruciante e ogni volta che andavo in strada, ogni volta che le incontravo era sempre tutto più chiaro e insopportabile. Il fatto di vedere come un sistema le ignorasse completamente se non per sfruttarle mi distruggeva. Più di una volta mi capitava di incontrare ragazze ferite perché un cliente le aveva fatto male o perché la madame le aveva picchiate perché non avevano portato abbastanza soldi… ho in mente tutti i loro volti, i loro nomi, le loro storie ed ho iniziato proprio ad amarle e in quel momento hanno smesso di essere nessuno e sono veramente diventate tutto, al punto che nel tempo ho capito che erano i poveri ai quali sentivo di volermi legare perché sentivo tutto ciò ingiusto.”
– Quando iniziano il percorso di aiuto, le vittime vengono accolte in strutture residenziali protette che sin da subito forniscono tutela, alloggio, vitto, assistenza sanitaria e sostegno psicologico. E per questo ci è sorta la domanda: stando in casa come si riescono a gestire i conflitti interni?
– Mina: “Gestire i conflitti interni non è mai semplice e non è mai facile. Io personalmente cerco di mettermi dalla parte della persona che ospito in casa, dalla parte di chi soffre, di chi ha subito il torto e l’ingiustizia. Questo nella maggior parte delle volte funziona sempre e comunque la chiave è solo una, indipendentemente da tutto: con l’amore, quando una persona si sente accolta, si sente amata, tu puoi anche avere dei momenti di scontro ma anche in quello scontro quella persona capisce, sente che c’è tutto il tuo amore per lei. Quindi parte proprio con l’accoglienza e con l’amore”.
– La persona di fiducia, di amore risulta quindi essere di notevole importanza proprio perché la vittima deve riuscire a rifiorire a partire da quel dolore e da quel male che la trascinano verso il baratro pieno di paure e solo così può iniziare un percorso di identificazione con sé stessa, in primo luogo, e poi di re-inserimento sociale. Come, secondo voi, le ragazze che iniziano un percorso in una casa di accoglienza riescono ad inserirsi socialmente?
– Stefania: “Il periodo in cui sono in accoglienza getta un po’ le basi anche per quello, nel senso che dal momento in cui arrivano fino a quando non vanno via si fa un lavoro che permette loro di poter poi camminare sulle proprie gambe e di saperci stare in questa società. Mi viene da dire che pensando alla nostra esperienza noi siamo fondamentalmente dei ponti per questo e facciamo in modo che le ragazze possano attraversarci ed arrivare nel modo più soft possibile. È chiaro che non possiamo fare tutto subito e che ci vuole una rete accanto a tutto questo perché nelle fasi di accoglienza e nei percorsi che si creano per ogni ragazza ci vogliono delle attività che svolte al di furori della casa di accoglienza diventano tutte sistemi attraverso i quali la ragazza si può confrontare con altre persone e si svela quella che può essere la sua capacità. Le ragazze che sono state da noi hanno iniziato con la scuola di italiano, interagendo con altre nazionalità: compagni e insegnanti; poi hanno seguito dei corsi di sartoria tramite la Caritas e quindi si sono rapportate ancora a nuove figure. È un lavoro che ovviamente ricade su chi le ha in accoglienza ma chiama in causa anche altri attori perché non possono confrontarsi esclusivamente con la casa e con le persone di riferimento in casa ma hanno bisogno anche di guardar fuori. È tutto un lavoro che si snocciola pian piano, giorno dopo giorno anche in base al percorso della ragazza, alle sue capacità di mettersi in gioco e di volersi anche integrare. Se penso a casa nostra cerchiamo di far capire loro che al di fuori si confronteranno con una società dove è necessario comportarsi in un determinato modo. La rete diviene fondamentale anche per un fattore culturale perché avere qualcuno che attivi tirocini permette alle ragazze di capire come funziona il mondo del lavoro che è fortemente legato ad aspetti culturali. La casa d’accoglienza quindi fa la sua parte in quella che è la quotidianità, però accanto alla casa di accoglienza deve esserci una rete di enti e di associazioni che possono aiutare in questo processo, altrimenti ci si può ritrovare a fare un salto nel vuoto.”
– In base a quanto è emerso sin ora, in che modo credete che il vostro impegno/ la vostra scelta di vita sia importante per la società?
-Stefania: “non credo di essermi mai fatta questa domanda, in tutte le mie scelte penso sempre di muovermi in base alla mia coscienza; poi se guardo indietro e ripenso ai vari motivi per i quali ho scelto determinati studi piuttosto che altri mi rendo conto che ho sempre sentito in me il desiderio di essere voce di chi voce non ce l’aveva. Se quindi per società parliamo anche di tutti coloro che sono invisibili allora penso che loro siano stati l’orientamento delle mie scelte. Nel tempo è venuta fuori anche una dimensione di lotta e rispetto a questo c’è la consapevolezza che molte cose non vanno e che bisogna cambiare, però penso che la scelta iniziale sia stata fatta guardano alle vittime e non alla parte di società da cambiare”.
Queste testimonianze, più che risposte, rendono tangibile la sofferenza che come un bagaglio portano con sé le vittime; le loro (non) scelte, le loro speranze deluse, i loro bisogni celati e non riconosciuti da quella terra ospitante che promette libertà, democrazia e diritti umani ma che in realtà sottopone ed etichetta doppiamente le stesse. Crediamo sia opportuno un cambiamento per restituire voce alle vittime, ricordando sempre che dietro quell’etichetta ci sono delle PERSONE e che il mutuo soccorso può davvero accorciare le distanze tra Paesi e intere nazioni.