Scritto da Carlo Mazzoleni, volontario in Servizio Civile a Valdivia nel progetto “Caschi Bianchi Corpo Civile di Pace 2020 – Cile”
Due ore di viaggio da Valdivia, tra strada sterrata e traghetto, ci hanno condotto all’ingresso del “Fundo Punta Galera” (presso la località di Chaihuín, regione di Los Rios), un latifondo privato che da poche settimane è stato “recuperato” dalla comunità Mapuche Lonko Pablo Nauco. Davanti all’ingresso sventola una bandiera Mapuche, e uno striscione annuncia l’iniziativa di recuperazione territoriale messa in atto dalla comunità: il catenaccio che blinda il portone di accesso sembra voler trasmettere il messaggio “qua non entra più nessuno”. La comunità è molto sospettosa perché teme che i “proprietari” del latifondo o la polizia possano mettere in atto azioni per farli tornare sui loro passi. Il nostro ingresso al territorio è stato permesso dal contatto precedentemente stabilito con il werken (portavoce).
Attraversato una strada sterrata circondata da un lato da una ricca vegetazione di eucalipti e dall’altro dalla potenza dell’oceano Pacifico e da spiagge vergini, giungiamo dunque a conoscere la comunità. Dopo varie strette di mano e un giro di presentazioni più approfondite, i membri della comunità hanno iniziano a raccontarci la loro storia delle loro famiglie e delle loro terre ancestrali.
Il territorio su cui ci troviamo – da sempre abitato da comunità mapuche Lafkenche (della costa) – venne donato nel 1922 dallo Stato cileno ad una nobile francese, che non si interessò mai della questione e mai mise piede sulla “sua terra”: la cessione del terreno non comportò quindi alcuna conseguenza per la vita della comunità indigena. La situazione cambiò drasticamente quando ad inizio anni ’90 il fondo venne acquistato da un imprenditore spagnolo attivo nel settore forestale, José “Coño” González: il nuovo proprietario avviò una coltivazione intensiva di eucalipto – pianta non autoctona ed invasiva, che ha alterato gravemente l’ecosistema della zona – e scacciò violentemente le famiglie mapuche Railaf e Nauco, le cui case vennero bruciate. Iniziarono per queste famiglie anni di “esilio” ma con sempre nel cuore il ricordo della loro terra in cui erano nati, terra che per i Mapuche è un vincolo spirituale.