Scritto da Marta Danelli, volontario in Servizio Civile a Nairobi nel progetto “CASCHI BIANCHI CORPO CIVILE DI PACE – AFRICA 2024”
Ieri mattina camminavo tra la terra bagnata dalle piogge di questa stagione e sono arrivata alla fine di una stradina piena di cosiddetto “matope” – fango in kiswahili – con le scarpe pulite e senza nessuna macchia sui piedi. Ero così fiera di me, questa è una competenza speciale della popolazione keniana e finalmente sono riuscita a farla mia, dopo mesi di scivoloni e piedi sempre sporchi.
Mi trovo nella periferia di Nairobi, in Kenya, e vivo nel Centro G9 insieme a 20 bambini tra i 5 e i 18 anni provenienti da una vita di strada e da contesti familiari vulnerabili, oltre ad altri volontari e volontarie. Sul finire di questo anno di Servizio Civile mi trovo a fare dei bilanci, a pensare e ripensare ad alcune considerazioni dolci e amare. E penso spesso alle scarpe perfettamente linde con cui le persone vanno in giro, nonostante le strade sporche, impolverate e piene di matope, appunto. Eppure, accade a volte che i fiumi straripano, le acque di scolo delle fognature fuoriescono e piove tanto e tutto si mischia: alcuni tratti diventano inagibili e per passare bisogna necessariamente immergere il piede in quella poltiglia. Oppure si confonde un pannolino nascosto nel fango per una roccia, e si affonda in quel liquame.
Non riesco a trovare un’immagine migliore per raccontare la vita in Kenya e le vite di tutte le persone incontrate: in questo paese c’è chi resiste nonostante un contesto difficile, dove le case sono minuscole e asfissianti e i pochi soldi guadagnati bastano esclusivamente per mettere qualcosa in tavola. In queste condizioni c’è chi mantiene una dignità incredibile, lotta con ogni strumento che ha per fare andare le figlie e i figli a scuola, per assicurare loro un futuro migliore del proprio. C’è chi riesce a mantenere quelle scarpe pulite nonostante la criminalità diffusa, l’inaccessibilità di diritti essenziali quali la salute, l’istruzione, la casa. C’è chi prova a prendersi cura del marito o dei familiari malati, nonostante spesso non abbia abbastanza, nemmeno per sé. Ci sono figlie che si prendono cura della propria mamma epilettica, talvolta sacrificando anche qualche giorno di scuola. Ci sono ragazze e ragazzi che riescono a finire le superiori e il college o l’università, nonostante provengano da una baraccopoli in cui spesso non c’è nemmeno la luce e l’acqua.