Perdere il feyentún: la lotta per preservare l’identità mapuche nelle carceri cilene

servizio civile estero Testimonianze

Scritto da Giuseppe Santaguida, volontario in Servizio Civile a Valdivia nel progetto “CASCHI BIANCHI CORPO CIVILE DI PACE 2022 – CILE”

L’uomo in divisa verde e nera è un agente della Gendarmeria de Chile. Apre la porta di ferro del carcere di Temuco con un mazzo di carte di identità in mano. Inizia a scandire i nomi di familiari e amici giunti a incontrare i detenuti. Sono le 13:40, l’orario delle visite è scoccato da poco e questo è solo il primo di una lunga serie di appelli. Ad avere la precedenza saranno quelli che hanno consegnato i documenti la mattina, prima delle 11:00. Tra questi fortunati ci dovremmo essere anche io e Jacopo, un altro volontario che è con me, ma i nostri passaporti stranieri sono stati messi in coda all’innumerevole serie di carte di identità nazionali. Dovremo aspettare le prossime due chiamate. Siamo qui per incontrare dei prigionieri di origine mapuche, lo scopo è raccogliere delle testimonianze e informarci sulla situazione carceraria, ma il tramite per farlo come osservatori dei diritti umani è troppo lungo, quindi i familiari ci hanno ceduto un po’ del loro tempo per poter fare la visita.

Mi guardo attorno: distinti sprazzi di umanità si stringono sul marciapiede, tra le mura del carcere e la strada. Una tettoia verde in metallo protegge dalla pioggia in inverno e dal sole in estate, ma non riesce ad ospitare tutti. Hanno le facce stanche e avvilite, i loro occhi riflettono i segni dell’attesa. Spesso le loro braccia conserte si sciolgono per rivolgere una domanda agli agenti, una lamentela, un insulto in cileno.

La trafila per poter incontrare una persona cara in carcere inizia molto prima del giorno della visita. Un cammino irto di ostacoli e possibili disavventure. Occorre prima registrarsi per poter effettivamente visitare il prigioniero. La procedura può essere svolta in qualsiasi carcere del Paese. Qui a Temuco può essere espletata tutte le mattine fino alle 12:00, ma solitamente verso le 11:30 un gendarme esce fuori in strada a raccogliere i documenti di chi è in attesa. Da quel momento, chiunque sopraggiunga non sarebbe accettato, con l’invito di ripresentarsi il giorno dopo. Ciò significa che molte persone non si possono inscrivere anche se non sono giunte in ritardo e l’orario di chiusura non è ancora arrivato.

Una volta registrati si ha la possibilità di recarsi a visitare il detenuto. Tuttavia, nonostante l’orario di visita sia solitamente di pomeriggio, dalle 13:30 alle 16:00, il personale di Gendarmeria consiglia di recarsi di fronte al carcere la mattina, prima delle 11:00, per consegnare il proprio documento di identità, in modo tale da essere chiamati per primi. Sempre in questa fascia oraria la persona interessata può portare con sé il cibo che intende far entrare dentro l’istituto, in modo tale che sia anch’esso ispezionato in anticipo. Questo fa in modo che davanti al carcere si creino file di persone fin dal mattino, non senza generare confusione e dissidi tra i presenti.

Il gendarme esce per il terzo turno, questa volta io e Jacopo notiamo che ha anche due passaporti in mano. Sono nostri. Come molti da queste parti, l’agente ha difficoltà a pronunciare il mio nome. Alzo la mano mentre tenta di emettere il suono giusto. Il mio compagno mi segue. Superato il cancello ci ritroviamo in un cortile in cemento.

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