Sono Silvia, ho 25 anni e vengo da Fabriano, una cittadina in provincia di Ancona, dove sto svolgendo, da metà febbraio, servizio civile con l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e mai avrei pensato di svolgere un’esperienza del genere.
Di solito in questo tipo di decisioni mi tiro sempre indietro per mancanza di sicurezza anzi, per avere la sicurezza di non essere abbastanza da poter dare il mio aiuto a qualcuno.
Il progetto che ho scelto si chiama “2019 Oltre la strada c’è la vita” e prevede la mia presenza nella “Casa Famiglia Tra le nuvole”, struttura che ospita donne vittime di tratta. Il loro percorso all’interno della casa ha come meta la riconquista della propria autonomia, preparandole a un ritorno alla vita sociale. Per cinque giorni a settimana mi ritrovo con loro a passare momenti di condivisione e di conoscenza reciproca. Ovviamente ero spaventatissima all’idea di cominciare e non posso nascondere che, qualche giorno prima dell’inizio del servizio, ho avuto il pensiero di tirarmi indietro. Ma non l’ho fatto.
Il primo giorno sono arrivata in struttura e mi si è subito presentata la risposta, il motivo che mi aveva spinto a non mollare: alla fine del servizio le ragazze presenti in struttura mi avrebbero dato più di quanto io avessi potuto dar loro.
E tutto ciò accadde già nelle prime settimane solamente stando a pranzo tutti insieme o chiedendomi di fermarmi per cena, passeggiando nel cortile, giocando al “gioco dell’oca”, ascoltandole, rispondendo alle loro curiosità sulla mia vita, disegnando, creando segnalibri per una delle ragazze amante della lettura… il minimo indispensabile, cose semplici, che succedono a tutti nel quotidiano.
Con l’avvento dell’emergenza sanitaria si è dovuto ripensare al mio progetto: continuo a camminare accanto alla casa famiglia principalmente portando loro le provvidenze che ritiro in vari supermercati.
Le vedo per poco tempo, il tempo di scaricare scatole e bustoni, ripartire per poi tornare, tutto ciò dietro a delle mascherine… ma anche se accade solamente ciò, anche se devo solamente scaricare scatole e bustoni e ripartire per poi tornare, loro non smettono e non smetteranno mai di chiedermi ogni giorno “Come stai?”, e io non smetterò mai, anche nei giorni un po’ meno positivi, di rispondergli sperando che quella mascherina si rigonfi un po’, per far trasparire il sorriso che solamente con quella domanda, mentre scarico scatole e bustoni, riescono a far nascere.
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