Scritto da Samirah Jarrar, volontaria S.V.E. nel progetto “Mediterranean: sea of Peace” presso Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Sono in camera, con la finestra aperta. Fuori fa caldo ed è già primavera. Un raggio di sole mattutino riflette sulla polvere nell’aria.
Sento la mia vicina di casa ridere con suo marito dal tetto. Abitano lassù. Metà della casa è all’aperto e le uniche due piccole stanze al chiuso erano probabilmente dei granai inabitabili. Ci hanno ricavato una piccola cucina, un bagnetto e una camera da letto. La vita di questa famiglia che ride al mattino si svolge per il resto sotto il sole e le stelle.
Oggi la giornata sarà bella.
L’aria primaverile rinfresca anche la mente.
Non sempre i pensieri sono luminosi come oggi. Spesso, anzi, sono caotici come le strade della città e polverosi. La testa a volte assomiglia al traffico: intasata e stagnante, eppure nervosa.
L’essere qui, come volontaria europea in Egitto, certamente mi garantisce tutta una serie di vantaggi e privilegi, primi fra tutti la libertà e la sicurezza. Molta gente pagherebbe per passare un periodo, anche breve, al Cairo. Invece io mi trovo qui con un appartamento pagato e addirittura un piccolo stipendio, economicamente indipendente e soprattutto libera di gestire ogni momento della mia vita. Il fatto di lavorare e di trovarmi con altri volontari mi ha permesso di inserirmi subito in una dinamica sociale, senza dover affrontare da sola tutto lo sforzo di riambientarmi. Inoltre, la consapevolezza di avere una struttura di supporto (il progetto EVS, la sending e la hosting organisation), su cui poter contare per ogni problema, sicuramente fornisce sicurezza e un senso di protezione.
Eppure l’esperienza non è priva di sfide.
Quando si arriva in un posto nuovo, ci si ritrova in una situazione sconosciuta, inseriti in delle dinamiche umane e sociali inaspettate e in una condizione che, nonostante la preparazione prima della partenza, è comunque sostanzialmente imprevedibile. La novità, il processo di adattamento, il riposizionare se stessi nel nuovo contesto: tutto ciò rappresenta un impegno.
Non solo. Se la partenza rappresenta un cambiamento e quindi una discontinuità nel proprio percorso di vita, tuttavia quando partiamo, lo facciamo con il nostro corpo e la nostra personalità. Ci portiamo appresso un bagaglio di prospettive, di aspettative e di conoscenze che andranno a incontrarsi (o a scontrarsi) con il nuovo contesto. I risultati di questa interazione saranno imprevedibili.
È questa continuità con me stessa la grande sfida e allo stesso tempo la mia ancora di salvezza. Da una parte, infatti, è talvolta stancante sottopormi, con le debolezze umane che mi sono portata da casa, allo sforzo della novità. Dall’altra, il conoscere le cause profonde per le quali ho inizialmente deciso di partire mi ri-orienta quando mi sento persa in questo nuovo contesto.
È importante, mi sembra, riuscire in ogni circostanza ad essere onesti con se stessi riguardo ai motivi per cui agiamo. Nel mio caso, ogni tanto mi chiedo: “Perché sono qui? Cosa sono venuta a fare? Cosa mi ha spinta a intraprendere questa esperienza?”
Le risposte sono molto più personali di quello che ammetto in pubblico. Sono però queste motivazioni che alla fine mi fanno superare e sciogliere gli eventuali nodi che posso incontrare.
Alla fine, il traffico nella testa si scioglie, i pensieri ritornano a scorrere dolci come le acque del Nilo. Fuori il sole risplende, ormai si è fatto alto nel cielo. Un altro giorno è cominciato al Cairo.