Seguendo la regola del “polako”
volontariato europeoScritto da Andrea Zamagni, volontario SVE in Croazia
Dopo qualche mese vissuto nella comunità terapeutica dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, a Veliki Prolog, posso dire che l’adattamento è stato tra le cose meno facili.
Prima di tutto perché, in quanto comunità terapeutica, richiede il rispetto di alcune regole. Regole che, a volte, non riesco nemmeno a capire, ma che accetto perché so che chi le ha decise ha l’esperienza adatta per stabilire ciò che è meglio per i ragazzi e le ragazze accolti.
In secondo luogo, la Croazia è un Paese che ha avuto tanti problemi nel recente passato ed esce da tanti anni di dittatura comunista, quando era ancora annessa alla Jugoslavia di Tito. La guerra per l’indipendenza, combattuta negli anni ’90, ha sicuramente segnato la vita di molte persone, influenzandone il comportamento e il punto di vista.
È facile pensare che i croati siano persone dure, chiuse. Invece, ho scoperto che sanno essere molto ospitali e sono molto religiosi. Diciamo che, alle volte, possono apparire un po’ testardi e molto nazionalisti.
Hanno però tradizioni e modi fare tutte da scoprire. Ce n’è una, in particolare, che apprezzo tanto: i croati spendono tanto tempo nei bar. Certo, non che siano fannulloni, è solo che, magari, si ritrovano per un po’ di ore con qualche amico per parlare in tranquillità davanti ad un caffè. Questo accade specialmente in Dalmazia, dove vige la “regola del polako”, che significa “piano”: prendere la vita con serenità, senza affannarsi e correre tutto il giorno.
Ho partecipato, da protagonista, anche al festeggiamento di San Nicola, qui nella parrocchia di Veliki Prolog. Vestito da questo santo, sono entrato in Chiesa, alla fine della Messa, e ho distribuito dolcetti e fatto foto con dei bambini, in un modo che somiglia al classico Babbo Natale dei grandi magazzini americani.
Un altro grosso ostacolo della mia esperienza è rappresentato dalla lingua, molto “spigolosa” e che non avevo mai sentito prima. Fortunatamente, però, alcune parole sono simili all’italiano e ho un’insegnate che mi dà lezioni private: la mia collega, Marina. I momenti in cui imparo di più sono però quando vado a fare la spesa o altre commissioni e quando parlo con i ragazzi.
Per quanto riguarda la vita in comunità, invece, sono stato molto aiutato da un ragazzo italiano che si trovava qua in fase di rientro, che è l’ultima fase del programma, in cui si vieni mandati a fare un’esperienza in un’altra struttura, spesso anche all’estero. Con lui potevo parlare in italiano e c’era anche quel feeling particolare dettato dal fatto di essere persone dello stesso Paese in terra straniera. Mi ha aiutato introducendomi alla vita di comunità, “educandomi” al rispetto delle regole e alla loro comprensione o accettazione, e aiutandomi nella ricerca del mio ruolo.
Sì, perché quando sono arrivato qua, mi è stato detto che non avrei avuto un compito preciso: sarei dovuto stare con gli utenti, spendere del tempo con loro, e pian piano mi sarei costruito il mio ruolo, in base, anche, alla mia personalità.
Comunque sia, anche il fatto di poter parlare in italiano con tante persone, mi ha sicuramente aiutato nel non sentirmi completamente spaesato.
Ci sono stati dei momenti in cui non pensavo di riuscire a resistere: quando la nostalgia degli amici, della famiglia e della mia terra prendeva il sopravvento sul momento presente che stavo vivendo. Sono stato “salvato” dall’orgoglio e dalla voglia di continuare, riuscendo a superare i momenti meno piacevoli e, ora, sono contento di essere riuscito a puntare i piedi.
In questo momento, in cui posso pensare con distacco a tutti questi problemi, so che sono cose che tutti attraversano durante un viaggio.
Il mio progetto prevede due training formativi, in cui si ricevono informazioni sul servizio di volontariato europeo, con la partecipazione di tutti i volontari europei presenti nello Stato. Proprio durante questi incontri, ci hanno spiegato che chi intraprende un viaggio prova un senso iniziale di euforia e curiosità per tutto ciò che è nuovo, seguito da uno stato di “depressione”, in cui mancano le proprie tradizioni e i propri stili di vita precedenti all’esperienza. Superata questa fase, però, si arriva a quella di adattamento alla cultura del posto in cui si è.
Questo renderà, poi, un po’ difficile il ritorno alla vita di prima, con l’attraversamento di tutte le fasi appena descritte.
Durante questi training, ho conosciuto gli altri volontari come me, provenienti da diversi paesi europei, e ho avuto la possibilità di scoprirne le storie e le motivazioni che li hanno spinti a intraprendere questa avventura. È stato molto interessante vedere come si è creato subito un legame tra di noi, anche attraverso la condivisione dell’esperienza e dei vari problemi incontrati durante il percorso.
Ho avuto l’occasione di stringere amicizia anche con altri volontari italiani, che prestano servizio nella mia stessa associazione e sono qui come Caschi Bianchi, all’interno di un progetto di Servizio Civile all’Estero. Con loro ho potuto parlare meglio della mia esperienza, visto che anche loro svolgono compiti simili a quelli affidati a me e stanno a contatto con le stesse persone o tipologie di persone, e abbiamo approfittato anche per fare qualche gita fuori porta.
Questa esperienza si sta rivelando una grande fonte di esperienze più piccole, dove si scopre più di quanto mi aspettassi.
“La sensazione di euforia che si prova quando si scopre una cosa non cercata mentre se ne sta cercando un’altra, ovvero l’essere disposti, mentre si cerca qualcosa di ben determinato, a trovare altro, ad accogliere mondi, visioni e riflessioni che non ci eravamo aspettati di incontrare.” (Paola Calvetti, dal libro “Olivia: ovvero la lista dei sogni possibili”).