La banalità del bene

servizio civile estero Testimonianze

Scritto da Filippo Carroli, volontario in Servizio Civile a Bucarest nel progetto “CASCHI BIANCHI CORPO CIVILE DI PACE 2022 – EUROPA ORIENTALE”

Fra tutti i posti che ho frequentato nel mio anno di servizio civile in Romania, quello che mi è rimasto più a cuore è stato Ferentari. È il peggior quartiere di Bucarest, il “ghetto” dove rimangono intrappolate tantissime persone, quasi tutti rom, la maggior parte tossicodipendenti e molti bambini, figli di persone spesso insufficienti a sé stesse.

La prima volta che sono andato a Ferentari me la ricordo bene, stavamo andando al programma per bambini delle Suore Missionarie della Carità dove avrei avuto il compito di proporre giochi, attività, laboratori. Entrando dal cancello ci aspettavano pochi bimbi, che erano lì più per la curiosità di vedere il nuovo italiano appena arrivato che per farsi coinvolgere dalle attività. Prima del mio arrivo c’erano stati tanti cambi fra cui la partenza dei due Caschi Bianchi dell’anno prima, tornati in Italia da poco e a cui tutti avevano voluto molto bene. Avrei dovuto occupare il loro posto e, siccome io non ero quei due ragazzi, le aspettative erano irraggiungibili. Infatti, la maggior parte di loro lì per lì non fu contenta di me, un ragazzo non è più venuto durante l’anno.

Ho capito solo dopo il senso della delusione di quei bambini, che a me, lì per lì, mi lasciò un po’ offeso. Io, semplicemente, non ero i due Caschi che erano appena andati via e, per i ragazzi di Ferentari, lo spazio della vicinanza, dell’intimità, è uno spazio in cui le ferite mai rimarginate infettano anche tutto il resto. La maggior parte di loro vive nella propria quotidianità dei drammi che io non saprei come reggere se anche solo mi capitassero una volta nella vita, mentre per loro è la quotidianità, la normalità delle cose. Molti sono figli di tossicodipendenti, molti hanno perso un genitore, alcuni anche tutti e due, c’è chi ha un genitore in carcere, chi l’ha visto scappare con un altro uomo o un’altra donna, chi non li ha mai conosciuti. Gli appartamenti in cui si vive a Ferentari sono camere di pochi metri quadri, molto spesso sudicie, all’interno di condomini in cui i pavimenti sono ricoperti di siringhe e alle scale manca il corrimano fino al secondo piano.

La strada da cui vengono alcuni dei bambini che frequentano il programma delle suore è aleea Livezilor – ironia vuole che la traduzione sia “vicolo del frutteto” – che è ben conosciuta in tutta la Romania. Ma, più che rassicuranti alberi da frutto, in aleea si incontrano persone che zoppicano per gli ascessi dovuti alle punture delle siringhe e ragazzi che a malapena si reggono in piedi, sotto l’effetto di eroina o metanfetamine. Accanto a loro, i bambini giocano al gioco dell’elastico, a calcio, cantano e ridono e, d’estate, qualcuno gonfia anche qualche piscinetta gonfiabile riempita poi d’acqua e usata da chiunque voglia.

Ora mi è molto chiaro il motivo per cui quei bambini non mi hanno concesso quello spazio di vicinanza che speravo di conquistare al primo colpo con tutti i giochi, i balli e le attività che conoscevo. Quello spazio era estremamente ferito e, al tempo stesso, preziosissimo e quindi ricoperto di un’armatura talmente spessa da doversi difendere da me, che ero l’ennesimo “attentatore” che non sarebbe rimasto, che avrebbe forse riaperto ferite affettive che poi non avrebbe curato e rimarginato. Confesso che forse in fondo avevano ragione, perché poi è vero, sono tornato in Italia, anche se ogni tanto vado a trovarli. Però, poi ci siamo voluti un bene così profondo che ha scardinato tutti i miei parametri relazionali.

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